giovedì 24 gennaio 2013

Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare

Il  primo romanzo pubblicato in Italia di Julie Otsuka,  scrittrice americana di origini giapponesi, (apparso nel 2012 presso Bollati Boringhieri), è Venivamo tutte per mare, che però in realtà è il secondo da lei scritto, mentre il suo romanzo d'esordio, Quando l'imperatore era un dio, è uscito proprio in questi giorni sempre presso lo stesso editore.  

Venivamo tutte per mare tratta il tema dell'immigrazione giapponese negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento, un'immigrazione vista dal punto di vista femminile, cioè delle migliaia di ragazze che in quegli anni partirono dal Giappone verso l'America, armate solo delle foto dei loro mariti, che avevano sposato per corrispondenza e che non avevano mai visto in realtà. Realtà che si rivelò estremamente deludente per molte di loro, spesso poco più che bambine e con pochissima esperienza del mondo:

Sulla nave non potevamo sapere che quando avremmo visto i nostri mariti non li avremmo riconosciuti. Che tutti quegli uomini in berretti di maglia e cappotto nero sdrucito che ci aspettavano sul molo sarebbero stati così diversi dai bei giovanotti delle fotografie. Che le fotografie che ci avevano mandate erano vecchie di vent'anni. [...] Che nel sentir gridare i nostri nomi dalla terraferma, una di noi si sarebbe girata coprendosi gli occhi - Voglio tornare a casa - [...] (p.25).

Il breve brano sopra riportato ci dà un esempio del modo in cui è impostata la narrazione: non si tratta della storia di uno o più personaggi chiaramente identificati, bensì di un racconto corale, dove in brevi paragrafi sono narrate le vicende di centinaia di immigrate, raccontate con un "noi" che riesce a farci sentire la voce di tutte, dapprima senza riportare alcun nome proprio, per sottolineare la condizione comune di queste ragazze, così simili tra loro:

Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo lunghi e neri capelli e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. [...] Quasi tutte, sulla nave, eravamo preparate , e sicure che saremmo diventate brave mogli. Sapevamo cucinare e cucire. Sapevamo servire il tè, disporre i fiori e rimanere sedute per ore sui nostri piedi piatti e larghi, senza dire assolutamente nulla di significativo. [...] Sapevamo come comportarci ai funerali, e sapevamo scrivere brevi poesie malinconiche sul passare dell'autunno, lunghe né più né meno di diciassette sillabe. Sapevamo strappare le erbacce, spaccare la legna e trasportare l'acqua [...]. (p. 9 segg.).

Gradatamente  si delinea il destino di queste donne, spesso drammatico e crudele, a partire dalla prima notte di nozze, che per molte sarà un incancellabile trauma:

Quella notte i nostri nuovi mariti ci presero in fretta. Ci presero con calma. Ci presero dolcemente ma con decisione, e senza dire una parola. [...] Ci presero supine sul nudo pavimento del Minute Motel. Ci presero in una stanza di second'ordine del Kumamoto Inn, giù in centro. Ci presero nei migliori alberghi di San Francisco dove un giallo potesse mettere piede a quell'epoca. [...] Ci presero prima che fossimo pronte, e poi continuammo a sanguinare per tre giorni. Ci presero con i nostri kimono di seta bianca attorcigliati sopra la testa e noi credemmo di morire. [...] Ci presero anche se li mordevamo. Ci presero anche se li picchiavamo. [...] Ci presero rapidamente, più volte e per tutta la notte, e il mattino dopo appartenevamo a loro (p. 27 segg.)

Le timide fanciulle arrivate con la testa piena di sogni si ritrovano a vivere in campagna, lavorando come schiave nei campi, dormendo in baracche malandate, subendo le molestie dei padroni. Altre invece lavorano come domestiche, nelle grandi case in collina, al servizio di eleganti signore annoiate e un po' condiscendenti, oppure in città, presso casalinghe più pratiche e alla mano, anch'esse talvolta di recente immigrazione, che insegnano loro ad ambientarsi in un mondo delle cui usanze sono del tutto ignare:

Furono le loro donne a insegnarci le cose da sapere. Come accendere una stufa. Come rifare un letto. Come rispondere quando suonavano alla porta. Come stringere la mano. Come azionare un rubinetto che molte di noi non avevano mai visto. Come comporre un numero di telefono. [...] Le amavamo. Le odiavamo. Volevamo essere loro. Così alte, belle e chiare. Le loro membra lunghe e aggraziate. I loro denti bianchi e splendenti.[...] Si muovevano con una sicurezza che a noi mancava. E una chioma molto più bella. Così tanti colori. E ci dispiaceva di non poter essere più simili a loro. (p. 47-48)

E c'è anche qualcuna che finisce in un bordello, sperando di mettere da parte abbastanza denaro per comprare il biglietto di ritorno per il Giappone, senza però riuscirci mai e continuando a consumarsi di sogni.

E gradualmente l'autrice comincia, qua e là, a farci sapere il nome proprio di qualcuna di queste donne, che per un attimo si stacca così dallo sfondo comune e corale: veniamo allora a sapere di Yoshiko, "che era stata  allevata dalle balie dietro le alte mura di Kobe e non aveva mai visto un'erbaccia in vita sua" e che non riuscì a imparare il lavoro dei campi e morì; o di Mikiko, che si diceva fosse scappata con un mazziere del Toyo Club; o di Akiko, "che aveva frequentato una scuola dei missionari a Tokyo e sapeva già l'inglese, e [...] lavorava cantando "Arise, My Soul, Arise"".

E poi naturalmente arrivano i figli: e la voce corale racconta queste nascite, riuscendo a farci sentire l'affinità pur nella molteplicità delle situazioni. Ed ecco i nomi dei bambini: Tameji, "che somigliava tanto a nostro fratello, e contemplammo il suo volto con gioia"; Eikichi, "che somigliava tanto al nostro vicino, e da quel giorno nostro marito smise di guardarci negli occhi"; Daisuke, "che aveva i lobi delle orecchie molto lunghi, e capimmo subito che un giorno sarebbe diventato ricco"; Kamechiyo, "così brutta che tememmo di non riuscire mai a trovarle un compagno"; e così via.

Lentamente, con tenacia e fatica immensa, vincendo la diffidenza o, addirittura, l'aperta ostilità dei bianchi, le famiglie giapponesi riescono a farsi un piccolo spazio nei paesi o nelle città dove vivono, pur non riuscendo mai a integrarsi veramente. Qualcuno compra una casetta modesta, qualcun altro avvia una piccola attività in proprio, magari una lavanderia, oppure prende in affitto un campo, i figli cominciano a frequentare le scuole con i bambini bianchi, qualcuno si fa degli amici... Ma a rovinare tutto e a spazzare via qualsiasi speranza di integrazione arriva l'attacco giapponese a Pearl Harbor: all'improvviso i giapponesi, tutti, senza distinzione, vengono visti come traditori e per loro si aprono le porte di veri e propri campi di concentramento. Costretti ad abbandonare tutto, tranne ciò che può stare in una piccola valigia, sgomenti, ma dignitosi, uomini e donne che da decenni vivevano negli Stati Uniti e si consideravano americani, partono su treni dai vetri oscurati verso mete sconosciute. Il racconto si fa struggente e doloroso e alla voce narrante delle donne giapponesi  si sostituisce quella degli americani, che assistono a questo esodo forzato; e ancora il racconto corale ci fa sentire la voce di tutti:

I giapponesi sono scomparsi dalla nostra città. Le loro case sono sprangate e vuote. Le loro cassette della posta cominciano a traboccare. Verande sbilenche e giardini sono cosparsi di giornali non ritirati. Nei loro vialetti si vedono macchine abbandonate. [...] Gli ultimi carichi di biancheria sono ancora appesi ad asciugare. In una delle loro cucine - quella di Emi Saito- un telefono nero continua a squillare. (p.125).

I più turbati sono i bambini, che a scuola trovano vuoti i banchi dei loro compagni giapponesi, e le maestre, che rimpiangono quegli alunni così rispettosi. C'è naturalmente chi vede partire i giapponesi con sollievo, perché non si fida di loro, tanto che qualcuno favoleggia di interi arsenali  scoperti nelle cantine delle famiglie partite...

Dei giapponesi deportati, ci dicono i narratori, non si sa più nulla e ogni traccia della loro presenza lentamente scompare dalle città dove avevano vissuto.

Ispirato "dalle biografie degli immigranti giapponesi che arrivarono in America all'inizio del Novecento", come scrive l'autrice nei ringraziamenti finali, la narrazione prende spunto anche dalle vicende capitate alla madre di Julie Otsuka, internata a dieci anni con la famiglia in uno dei dieci campi che raccolsero 120.000 giapponesi, durante la guerra: un pezzo di storia che, almeno qui in Europa, non è molto conosciuto. Ma ciò che rende questo libro unico e, a mio parere, indimenticabile, è proprio quella voce che diversi commentatori hanno definito ipnotica, quel "noi" che, come recita la seconda di copertina, riesce  in "queste essenziali, preziose pagine" a raccontare "le peripezie di un intero popolo di immigrati". Una scrittura la sua che, secondo le parole della scrittrice e critica letteraria Jane Ciabattari, sulle pagine online del San Francisco Chronicle, "combina il tragico potere di un coro greco con l'intimità di una confessione" (trad. mia).

Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, p. 142.

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