giovedì 28 febbraio 2013

Jhumpa Lahiri, L'interprete dei malanni

L’interprete dei malanni è l’opera prima con cui Jhumpa Lahiri si è aggiudicata nel 2000 il prestigioso Premio Pulitzer. In seguito, nel 2003, ha pubblicato un romanzo L’Omonimo, da cui la regista Mira Nair  nel 2007 ha ricavato il film Il destino nel nome / The Namesake.    Nel 2008 è ritornata a scrivere racconti con Una nuova terra. Lahiri è nata a Londra da genitori indiani bengalesi, ma è cresciuta nel Rhode Island. A Boston ha conseguito tre lauree: in inglese, scrittura creativa e letteratura comparata e un dottorato in Studi Rinascimentali, per affrontare i quali pare abbia imparato molto bene la lingua italiana. Un articolo di Repubblica del dicembre 2012 ci informava della sua presenza a Roma per un anno sabbatico ed è proprio lì che sta terminando il suo ultimo romanzo, di cui si conosce già il titolo Lowland, La pianura, un posto di Calcutta che lo ha ispirato.

Nonostante la sua vita errabonda, ciò che caratterizza Jhumpa Lahiri è la sua matrice indiana, anche se non è mai vissuta in India. Forte è il legame con la terra d’origine dei suoi genitori. Lei stessa, che si può considerare un’americana di seconda generazione, ha dichiarato che “crescere non è stato semplice, perché mi sembrava che a crescere, in realtà, fossero due persone, quella legata alla tradizione indiana e quella proiettata nella frenesia americana.” Tutto questo è materia dei suoi romanzi e racconti sin dalla prima raccolta L’interprete dei malanni.


Sono nove racconti, ambientati o negli Usa o in India, dove indiani più o meno americanizzati ritornano per visite nella loro terra d’origine. Jhumpa, che ha conosciuto l’India dai racconti dei suoi genitori, attraverso le sue storie e i suoi personaggi ci fa capire che ha piena coscienza della condizione degli emigrati, della loro emarginazione, della nostalgia per ciò che hanno lasciato e dell’inquietudine nell’andare incontro a ciò che ancora non si conosce. Forte è il vincolo con le radici, ma c’è anche la consapevolezza delle opportunità che l’America offre. Sono storie di esclusione, a volte di povertà, ma anche di benessere. Sono racconti, che sono come brevi romanzi per le storie suggerite, alcuni sono bellissimi per la sensibilità con cui sono raccontati, a volte anche con una punta di ironia.

Il primo racconto, Disagio temporaneo, è il più intimista: una storia ambientata a Boston, ma soprattutto nella casa di due giovani sposi indiani in crisi dopo aver perso il figlio neonato. Shoba, iperattiva e proiettata verso l’esterno, il marito, Shukumar, ancora studente, più chiuso verso il mondo esterno. Il racconto è la storia di ciò che accade in alcune sere di forzato blackout in cui a lume di candela si incontrano, si riavvicinano, si raccontano, ma poi il finale sarà a sorpresa. 

Il racconto che dà il titolo alla raccolta, L'interprete dei malanni, è,invece, ambientato in India, dove una famiglia americanizzata si reca in vacanza guidata dal signor Kapasi, che svolge l’attività di interprete nell’accompagnare i turisti, ma soprattutto di mediatore linguistico alle dipendenze di un medico, in un’India in cui, oltre all’inglese, persistono 22 lingue ufficialmente riconosciute, per cui non è facile comunicare tra gli stessi indiani. Il sig. Kapasi ritiene umiliante questo lavoro ed è felice nel momento in cui una donna americana prova interesse per la sua strana professione, per cui si lascia trasportare dal sogno, anche se sarà di breve durata. 

I racconti che mi hanno più emozionato sono due: Quando veniva a casa il signor Pirzada e soprattutto Il terzo e ultimo continente, ultimo dei nove racconti e per me uno dei racconti più belli che abbia mai letto. Il primo, ambientato nel 1971, richiede, per essere apprezzato, anche una conoscenza della storia dell’India, che ottenne l’indipendenza nel 1947, ma fu subito divisa in Unione Indiana, a maggioranza indù, e Pakistan, a maggioranza islamica, diviso a sua volta in due territori non contigui: Pakistan occidentale e Orientale. Quest’ultimo si separerà nel 1971 dopo una durissima guerra con massacri e volontario esilio di milioni di persone, che porterà alla nascita del Bangladesh. Il racconto di Jhumpa Lahiri ha come narratrice Lilia, una bambina di 10 anni ,che ricorda come tutte le sere venisse a casa sua un certo signor Pirzada, originario di Dacca, oggi capitale del Bangladesh, ma nel 1971 città del Pakistan orientale. Era sposato da 20 anni ed aveva sette figlie tra i sei e i sedici anni. portava due orologi , uno dei quali regolato sull’ora di Dacca, e tutte le sere seguiva con trepidazione il telegiornale, per essere aggiornato su quanto accadeva nel subcontinente indiano, anche se i servizi si facevano sempre più rari, perché la stampa era censurata, fino allo scoppio di una guerra durata dodici giorni. Il signor Pirzada ripartirà per Dacca e solo molti mesi più tardi farà arrivare a casa di Lilia un cartoncino in cui scrive di aver ritrovato moglie e figlie, nonostante la distruzione di più di un milione di case e l’esilio di miglia di profughi. La sintesi di un racconto come questo è poco efficace, perché non è la trama in sé che lo rende apprezzabile, ma la delicatezza della narrazione e soprattutto il fatto che lo sguardo su questi eventi e sui piccoli gesti del signor Pirzada è lo sguardo di una bambina, che cerca di capire, che si interroga. 

Questo discorso vale ancor più per l’ultimo racconto della raccolta, Terzo e ultimo continente: il racconto parte dal 1964, quando il protagonista, un bengalese  squattrinato, lascia l’India, per andare a Londra, dove vive con altri bengalesi poveri come lui, studiando e lavorando in una biblioteca per mantenersi. Nel 1969,  a 36 anni, torna in India per il matrimonio che la famiglia gli ha organizzato e sposa Mala, una giovane di carnagione non chiara, per poi volare a Boston, dove lavora nella prestigiosa biblioteca del MIT. Seguiamo il nostro personaggio nel primo approccio con il nuovo continente americano, così diverso dall’India, ma anche dall’Inghilterra. Importante è la casa in cui va ad abitare, gestita da una donna vecchissima di 103 anni, così’ fiera che gli americani siano sbarcati sulla luna, tanto che tutte le sere con lei diventa un rito ricordare questo evento e gridare "Fantastico!" La permanenza in questa casa finisce quando la moglie finalmente riesce ad avere i documenti per arrivare a Boston. Il narratore ci fa capire come da un matrimonio organizzato e quindi da una condizione di indifferenza nasca un rapporto d’amore dolce e solido, poi ci fa fare un salto in avanti di molti anni, quando c’è già un figlio adulto che studia ad Harvard. 

Mala non si avvolge più il sari sulla testa, la notte non piange più per i suoi genitori, ma qualche volta piange per nostro figlio. Allora andiamo a trovarlo … lo portiamo a casa per il fine settimana, a mangiare riso con le mani insieme a noi, a parlare bengali, perché ci viene il timore che smetterà di farlo dopo la nostra morte … Tra pochi anni si sarà laureato e si aprirà una strada solo e senza protezione … Quando si scoraggia gli dico che, se io ho potuto sopravvivere su tre continenti, non ci sono ostacoli che non possa superare. Mentre gli astronauti sono diventati eroi per aver speso poche ore sulla luna, io sono rimasto in questo nuovo mondo per quasi trent’anni. So che la mia conquista è abbastanza ordinaria. Non sono l’unico ad aver cercato fortuna lontano da casa. Eppure ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo miglio percorso, ogni piatto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in cui tutto questo supera la mia immaginazione. 

In questo racconto sento qualcosa di molto autobiografico a proposito di Jhumpa Lahiri: ho scoperto che anche suo padre era un bibliotecario, anche lei ha attraversato tre continenti, anche se il primo non direttamente. Nell’intervista di Repubblica ci ricorda che i genitori vogliono dare ai figli il sogno americano, ma nel contempo si sentono degli alieni: "I miei non parlavano mai dell’India, mia madre magari un po’ e in modo superficiale. Forse perché gli immigrati hanno questo desiderio di tagliare le radici. Così l’India per me era come la luna. Come io stessa ho sperimentato, ci vogliono tre generazioni per integrarsi. La prima, quella dei miei non parlava bene la lingua e ogni volta che apriva bocca scatenava una reazione tipo "voi siete diversi", la seconda, la mia, era divisa tra amici, musica e cibo bengalesi e vita americana, e la terza, che non ha più legami col passato. I miei figli non parlano né bengalese né spagnolo e mangiano indifferentemente curry, riso e fagioli, pasta. Ma si sentono al cento per cento di Brooklyn. E questo è positivo? Non lo so. I miei sapevano sempre chi erano e quale era il loro posto nel mondo. Io ho provato smarrimento e confusione dall'inizio alla fine e l'appartenenza solo alle persone.” 

Io di solito preferisco i romanzi ai racconti, ma questi di Jhumpa Lahiri mi hanno conquistato e vi invito a leggerli. 

Jhumpa Lahiri, L'interprete dei malanni, Guanda, Milano 2003.

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