domenica 22 luglio 2012

Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava parole


Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava paroleUn romanzo agile e divertente, questo Il bambino che collezionava parole di Juan Pablo Villlalobos, autore messicano che attualmente vive in Spagna. Villalobos, che ha lavorato in precedenza come analista di mercato e critico cinematografico, dice in un'intervista al giornale Guardian che l'ispirazione per questo racconto gli è venuta quando aspettava suo figlio e voleva scrivere un libro per raccontargli il mondo.

Ambientato nel Messico, narrato in prima persona, il romanzo racconta la vita come la vede un bambino di otto anni, Tochtli (parola dialettale che significa coniglio), che ama però farsi chiamare Usagi perché, grazie al suo insegnante privato, ha imparato ad apprezzare la cultura giapponese e il mondo dei samurai. Tochtli è orfano di madre e vive con il papà, Yolcaut, in una grande casa di Città del Messico, perché, come dice semplicemente il bambino, "il fatto è che abbiamo tanti soldi. Tantissimi." (p. 9). E non c'è da stupirsene, visto che, come gradatamente veniamo a scoprire, il padre di Tochtli è un narcotrafficante potentissimo e senza scrupoli, che non ci pensa due volte a eliminare gli ostacoli, umani o di altro genere, che si frappongono tra sé e la realizzazione dei propri traffici.

La vita del piccolo è decisamente diversa da quella dei suoi coetanei: Tochtli infatti non può andare a scuola perché il padre teme per la sua incolumità, perciò non ha amici ("Se si contassero i morti io conoscerei più di tredici o quattordici persone. Circa diciassette o di più. Probabilmente venti. Ma i morti non contano, perché i morti non sono persone, i morti sono cadaveri" [p. 10]). Rinchiuso nella sua enorme casa-fortezza, il ragazzo coltiva alcuni passatempi, tra cui i preferiti sono collezionare cappelli ("...i cappelli sono come le corone dei re. Se non sei un re puoi metterti un cappello per distinguerti. E se non sei un re e non porti il cappello finisci per essere un signor nessuno" [p. 4]) e cercare sul dizionario le parole difficili, come sordido, nefasto, lindo, patetico e fulminante (da qui l'infelice titolo italiano del romanzo, che in realtà si intitola Festa en la madrigueracioè Festa nella tana): grazie poi alla sua eccellente memoria il bambino ricorda e usa questi vocaboli nuovi a ogni piè sospinto.  

Tochtli inoltre ama gli animali selvaggi e visto che non può andare tranquillamente allo zoo, il papà gli ha comprato tigri e leoni che stanno in gabbie in giardino: quando il bambino chiede di possedere un ippopotamo nano della Liberia, il padre non esita a organizzare una spedizione in Africa per soddisfare il desiderio del figlio e anche per cambiare aria, in un momento in cui i suoi traffici stanno per essere scoperti.

Tutta l'immensa ricchezza del padre però non vale a comprare a Tochtli un'infanzia felice ("Oggi mi annoio in modo fulminante. Mi annoio perché non esco dal palazzo e perché tutti i giorni sono uguali" [p.22]). Inoltre il ragazzo soffre di mal di pancia fortissimi (anzi, "fulminanti", come li definisce lui) che vengono curati con infusi, da quando il padre non vuole più chiamare il medico, visto che questi ha ipotizzato che il male non sia di origine fisica:

Secondo il dottore, non ero malato alla pancia, ma alla psicologia. [...] una volta il dottore ha detto a Yolcaut che [...] sentivo dolore perché non ho più la mamma, che ciò di cui avevo bisogno era un dottore della psicologia. Pare si chiami malattia psicosomatica, che vuol dire che la malattia è della mente. Ma io non sono malato di mente, non  mi ha mai fatto male il cervello (p. 32).

Girovagando nell'enorme casa, Tochtli scopre che in una delle camere che credeva vuote esiste un vero e proprio arsenale, almeno un migliaio di pistole e circa cinquecento fucili, oltre a quello che poi gli verrà detto essere un bazooka. Con le armi il bambino ha dimestichezza, almeno a parole: infatti il gioco più divertente che fa con suo padre è immaginare quante pallottole ci vogliono a uccidere qualcuno: 

Una delle cose che ho imparato da Yolcaut è che a volte le persone non diventano cadaveri con uno sparo. A volte servono tre spari o anche quattordici. Tutto dipende da dove spari i colpi. [...] Tutto questo lo so grazie a un gioco che facciamo Yolcaut e io. E' un gioco di domande e risposte. Uno dice un numero di colpi sparati in una parte del corpo e l'altro risponde: vivo, cadavere o prognosi riservata. - Un colpo al cuore. - Cadavere. -Trenta colpi all'unghia del dito mignolo del piede sinistro. - Vivo. - Tre colpi al pancreas. - Prognosi riservata. E così via. (p. 8).

Nonostante l'ambiente terribile in cui vive, il bambino non perde (o per meglio dire, non ha ancora perso) ingenuità e freschezza. La sua voce da piccolo adulto che cerca di non piangere, anche se non ha la mamma e non ha amici, commenta con inconsapevole umorismo tutte le cose incomprensibili che nessuno vuole spiegargli (chi sono per esempio le misteriose fanciulle che ogni tanto vengono a trovare il padre e spariscono con lui in una delle tante stanze della casa e a proposito della quale una delle guardie del corpo del padre pronuncia l'enigmatica frase "Novanta sessanta novanta, novanta sessanta novanta" [p. 19]?).

Un'altra delle cose che Tochtli non dovrebbe sapere, ma che ha scoperto ascoltando le guardie del corpo, è la funzione delle tigri custodite in giardino:

Noi non usiamo le nostre tigri per i suicidi o per gli omicidi. Gli omicidi li fanno Mitzli e Chichilkuali con gli orifizi delle pallottole. I suicidi non so come li facciamo, ma non li facciamo con le tigri. Le tigri le usiamo perché si mangino i cadaveri. (p. 21).

Le cose che, con estrema naturalezza, il piccolo racconta sono terribili, ma il suo sguardo ancora limpido e pulito cancella ogni aspetto di atrocità dai particolari raccontati: ed è proprio il candore di questo sguardo, al quale l'autore non conferisce alcuna patina di moralismo, a far risaltare più che mai il rovesciamento dei valori educativi cui Tochtli è sottoposto: i pestaggi, gli omicidi, la corruzione, tutti gli orribili modelli cui il ragazzo è esposto e che vengono presentati come normali, ovvi, senza importanza.

Non sappiamo che ne sarà del giovane protagonista: possiamo solo vederlo così, piccolo coniglio rinchiuso nella sua enorme madriguera (la tana cui accenna il titolo originale), con i suoi occhi seri e la sua voce chiara e sincera come solo le voci dei bambini possono essere. Una favola nera ma irresistibilmente divertente, agghiacciante ma piena di candore.

Per questa sua opera prima, Juan Pablo Villalobos nell'anno 2011 è stato finalista per il prestigioso Guardian First Book Prize. 

Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava parole, Einaudi, Torino 2012

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