sabato 14 gennaio 2012

Ala al-Aswani, La rivoluzione egiziana (prima parte)

Ho già scritto molte volte in questo blog di Ala al-Aswani e della sua presenza al Festival letteratura di Mantova nel settembre del 2011, dove era venuto a presentare il suo ultimo libro La rivoluzione egiziana. Avendo terminato la lettura di questo saggio e avendolo trovato molto interessante, per approfondire gli eventi del 2011 della cd. Primavera araba,per quanto riguarda l’Egitto, ritengo opportuno riferire i passaggi più importanti di questo testo, pubblicato da Feltrinelli.
Dopo un’introduzione di Paola Caridi, il libro si articola in quattro parti e raccoglie interventi di Al-Aswani scritti in tempi diversi, dal 2005 al 2011. La prima parte è dedicata proprio alla Rivoluzione, la thawra tanto attesa e scoppiata il 25 gennaio 2011, le due successive delineano le motivazioni per cui quella rivoluzione doveva necessariamente accadere, l’ultima parte si focalizza sul dopo-Mubarak e sul rifiuto della successione del figlio Gamal.

Rivoluzione, ribellione, resistenza, protesta sono il filo rosso che percorre tutti i commenti coraggiosi che Al-Aswani ha pubblicato su diversi giornali, a rischio della vita, in quanto critico severo del regime e come coscienza appassionata e scomoda del post-rivoluzione. E’ l’intellettuale critico non organico, tra i primi di una lista di persone da eliminare
Nel 2008 in un’intervista dichiarò non solo in riferimento  all’Egitto, ma a tutto il mondo arabo, che era come una donna gravida che avrebbe partorito di lì a poco tempo e così è stato nei primi mesi del 2011. L’Egitto è la repubblica fondata nel 1952 da Nasser e trasformata in monarchia ereditaria, senza re con la corona ma con una stirpe dinastica, da Mubarak non eletto, in sostituzione di Sadat assassinato.
E proprio a piazza Tahir il 25 gennaio 2011 il popolo gridava “ Mubarak vattene”, quel popolo manomesso nel suo significato da Mubarak e dalla sua corte di oligarchi, torturatori e corrotti. E Al-Aswani era in piazza, lui che la rivoluzione l’aveva prevista e attesa.
Nel suo romanzo più famoso, Palazzo Yacoubian, aveva dato dignità e visibilità ad una umanità dolente, trattata come comparsa del regime. Quei ragazzi, donne, vecchi delusi e piegati dall’umiliazione si sono nel 2011 riversati in piazza e la rivoluzione ha ridato loro dignità.

Al-Aswani si è domandato: perché gli egiziani hanno tardato tanto a fare la rivoluzione in un Egitto in cui ben 40 milioni, cioè metà della popolazione, vivono con meno di due dollari al giorno, sotto le soglie della povertà?
Il clima repressivo ha reso vigliacchi gli egiziani, che sono più propensi al compromesso che alla violenza, con la tendenza ad una risposta individuale alla crisi, fuggendo per lavoro nei paesi del Golfo e riportando in Egitto l’interpretazione wahhabita dell’islam.
Dopo generazioni intere, cresciute con il convincimento che piegarsi all’ingiustizia è puro buonsenso, perché il regime non fa male a chi obbedisce, lo sbocco necessario è, invece, la rivoluzione, perché la vita di milioni di poveri è diventata insostenibile e bisogna andare al di là di una soluzione individuale. A Al-Aswani piace paragonare l’ egiziano al cammello che può sopportare a lungo ogni tipo di violenta punizione, umiliazione, fame, ma, quando si ribella, lo fa all’improvviso e con tale forza che è impossibile domarlo. E così il 25 gennaio ha visto in piazza i nuovi egiziani. Non solo i giovani della comunità di Internet che l’hanno iniziata, ma l’intero popolo che si è unito a loro, cristiani con musulmani. Ed anche migliaia di donne sono rimaste per 18 giorni a dormire per strada senza essere violentate.
Il Cairo da città polverosa, inquinata, senza regole si è trasformata nella piccola repubblica di Tahir, la repubblica dei sogni inclusiva, pulita, regolamentata. Finalmente la spinta ad andare contro un regime che si è impossessato del potere in modo illegittimo e pronto a conquistare diritti che non devono essere elargiti, ma conquistati. Diversa è la democrazia rispetto all’autocrazia, perché nella democrazia regna la giustizia e gli individui si affermano tramite il lavoro e non attraverso l’adulazione.
Non è un caso che gli articoli terminino tutti con lo stesso ritornello: L’unica soluzione è la democrazia.

Nel saggio sono tanti i problemi analizzati, a volte anche ricorrendo alle immagini di una favola in cui i personaggi sono animali, ma tra i più importanti mi sembra sia quello della religione e come essa influisca sulla concezione della donna e del potere.
Per secoli l’’islam in Egitto ha avuto un’interpretazione tollerante e aperta, compatibile con la civiltà egiziana che ha una storia di 7000 anni. Sino agli anni 80 le donne egiziane sono state le prime nel mondo arabo ad essere istruite, a lavorare fuori casa, a guidare automobili o pilotare aerei, le prime a sedere in parlamento con incarichi ministeriali, a conquistarsi il rispetto della società come esseri umani con diritti uguali a quelli degli uomini, almeno fino a quando sono arrivate le idee wahhabite provenienti dall’Arabia Saudita.
Dopo la guerra del 73, con l’aumento del prezzo del petrolio, milioni di egiziani sono andati a lavorare nel Golfo e sono tornati pieni di soldi e convertiti alle idee wahhabite. Settori della società egiziana hanno introiettato tradizioni e comportamenti prima sconosciuti in Egitto, come l’uso del niqab per le donne, la barba e le tuniche bianche per gli uomini, i negozi chiusi nell’ora della preghiera, il togliersi le scarpe entrando in casa.
Secondo l’slam wahhabita, degradata è la figura della donna come fonte di tentazione, femmina, strumento di lussuria, per fare sesso, macchina per prolificare, non del tutto capace di intendere e di volere. Non può guidare o passeggiare sola senza un uomo che la protegga da un rapimento o da uno stupro. La donna è un corpo, una preda sessuale che non può ribellarsi e difendersi da sola. Questa è un’infezione contratta da società beduine, chiuse, arretrate, da società nomadi provenienti dai deserti.

Al-Aswani in un articolo del 2006 racconta una festa in chiusura del Ramadam, in cui un migliaio di giovani al centro del Cairo, sotto l’indifferenza di alcuni poliziotti, ha molestato per più di quattro ore donne, che, tolto loro i vestiti, sono state palpeggiate. Le ragazze non erano prostitute, ma solo egiziane normali “come mia moglie e la vostra, come mia figlia o la vostra”. Questo crimine efferato è stato commesso di fronte a testimoni e molte foto scattate hanno circolato su Internet. 
Al-Aswani dice di aver pianto vedendole, mentre il ministero ha addirittura smentito che vi siano stati incidenti.
Questo non è solo un crimine, ma anche una catastrofe morale, da analizzare per capire che cosa stia succedendo in Egitto. Una forma di aggressione di massa come questa è la prova del caos che si può verificare ovunque e in qualunque momento. La frenesia sessuale di centinaia di giovani infoiati è espressione di frustrazione, di disperazione di chi sa di essere irrilevante, inutile. E’ una forma di vendetta contro una realtà abietta e ostile.
“ Sono i figli di un popolo indigente che muore per insufficienza renale, che è avvelenato dall’acqua di fogna che è costretto a bere, che ha il cancro per i pesticidi, che affoga a migliaia sui traghetti della morte, come il traghetto di al-Salam affondato nel Mar Rosso nel 2006. Sono giovani colmi di rabbia, figli della disoccupazione, dell’impotenza, del sovraffollamento, che vivono in piccole stanze senza servizi, senza speranza per il futuro. Vivono senza dignità, qualsiasi poliziotto li può arrestare, picchiare, violentare.”
Miliardi sono spesi per il ministero degli interni, il doppio del budget della sanità, per imprigionare, reprimere. Nel budget della presidenza milioni di lire egiziane sono per case delle vacanze e per i palazzi presidenziali, mentre milioni di persone vivono in baraccopoli senza i servizi essenziali.

Perché il mio post non sia troppo lungo lo divido in due parti.
Ala al-Aswani, La rivoluzione egiziana,Feltrinelli, 2011, pp.261

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