domenica 4 marzo 2012

Lubna Ahmad al- Hussein, Quaranta frustate

Quaranta frustateNegli anni sessanta, prima del Sessantotto, anche a Reggio Emilia, una donna che indossasse i pantaloni destava curiosità e ispirava giudizi malevoli, ma certamente non veniva frustata per il suo abbigliamento insolito.
Oggi tutte le donne, giovani e vecchie, nella massima indifferenza, indossano pratici pantaloni.

In Sudan, invece, soprattutto oggi, questo capo di abbigliamento può procurare alla donna una punizione di quaranta frustate. E' quanto ci racconta Lubna Ahmad al Hussein nel libro intitolato appunto Quaranta frustate, pubblicato in Italia da Piemme nel gennaio del 2012. L’autrice, nata dove il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro si congiungono, è una giornalista della testata sudanese indipendente Al-Sahafa, collaboratrice alla Missione delle Nazioni Unite in Sudan (UNMIS) e considerata da Amnrsty International un’importante attivista dei diritti umani.
Lubna ha raccontato la sua “ribellione alla legge degli uomini” in questo best-seller internazionale che ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo.
In Sudan, terra della sharia, per una donna portare i pantaloni è considerato un oltraggio alla“moralità pubblica” e punito con quaranta frustate, secondo l’articolo 152 del codice penale del 1991.
Lubna sta pranzando in un ristorante di Khartoum e, proprio per i pantaloni che indossa, è arrestata dalla polizia.

“La mia storia è quella delle centinaia, migliaia di donne che vengono fustigate ogni giorno e che per vergogna subiscono in silenzio”. Lubna, invece, non tace e decide di farne un caso da far conoscere a tutto il mondo. "Possono anche darmi 40000 frustate, ma non starò zitta”. In quel giorno di luglio Lubna è arrestata con altre 15 donne, tutte venute al ristorante, per far festa con famiglia, mariti, genitori, suoceri. E invece si ritrovano allineate contro il muro ed esposte al pubblico ludibrio semplicemente per un abbigliamento giudicato indecoroso.

Lubna, fiera del suo percorso di emancipazione, ci fa conoscere un Sudan che è diventato in questi ultimi decenni uno dei paesi più integralisti e misogini di tutto il mondo arabo islamico.
Ci ricorda di essere nata nell’Alta Nubia, l’immenso Kush al di là delle seconda cateratta del Nilo, “là dove si incontrano i popoli dell’Africa e quelli del Mediterraneo". Terra che abbondava di ricchezze: di oro, "la carne degli dei”, di ebano, avorio, struzzi, rame, argento.
L’articolo 152 è applicato a tutti i sudanesi indipendentemente dalla religione praticata, anche se in Sudan il 62% è musulmana, mentre il 22 % sono animisti, il 16% cristiani, e a prescindere dalla tribù di appartenenza: sono 300 tribù prevalentemente africane al sud, arabe al nord. Nel sud, non più arabo, le tradizioni tribali tuttora in vigore impongono tutt’al più un minuscolo perizoma per coprire la loro nudità. In parecchie tribù uomini e donne continuano a circolare nudi, senza alcun abbigliamento.
Prima del 1989, cioè prima del colpo di stato di Al-Bashir, anche le donne poliziotto portavano pantaloni e camicie con le maniche corte.

Lubna ripercorre la storia della sua giovane vita:

Nelle mie vene scorre sangue arabo e africano. Sono una sudanese della tribù dei Badiriya…ma sono anche yemenità e mauritana, e tramite i miei antenati, in me si mescolano mille altre etnie. Appartengo a tutti questi popoli, a quelli che talvolta vengono chiamati “ I degni” e i “neri”. Sono anche il frutto dell’incrocio tra aristocratici e popolino, tra ricchi e poveri.

Ci racconta anche di avere subito l’asportazione del clitoride a sette anni e di avere sofferto terribilmente, anche se sapeva che per una sudanese musulmana “non essere purificata” era la peggiore delle tare.

Conosco donne colte, diplomate laureate, donne che lavorano, che ancora oggi “fanno purificare le loro figlie “ per assicurare il loro avvenire.” E uomini brillanti che dopo ciascun parto pretendono che la moglie sia di nuovo purificata e suturata. Conosco ragazze che continuano a morire purificate in condizioni igieniche deplorevoli.

Ci racconta di essere stata sposata per soli tre mesi ad Abdel Rahman, un uomo meraviglioso, con cui “ha vissuto giorni di perfetta felicità. Io ero sua pari e lui non era soltanto mio marito, ma il mio migliore amico”. Soprattutto interessante è conoscere la condizione di chi resta vedova, come Lubna, la cosiddetta   "prigionia della vedova”, distinguendo tra ciò che è religione e ciò che è tradizione. Si deve indossare un abito bianco per il lutto, ma soprattutto non uscire di casa per un numero stabilito di giorni: quattro mesi e dieci giorni di prigionia senza lavorare, senza contatti con altre persone.

La sua battaglia Lubna l’ha vinta, grazie alla sua determinazione, trasformando le frustrate in ammenda, ma l’ha vinta soprattutto perché ha trasformato un caso personale in un problema delle donne sudanesi, sfidando il maschilismo e l'integralismo dei sudanesi.
Persino del periodo trascorso in prigione dice che la sua punizione si è trasformata in una ricompensa perché, nei contatti con le altre donne, ha avuto la possibilità di scoprire un universo sconosciuto e eventi e pene disumane nei confronti di donne che hanno come unica colpa quella di essere nate donne.

Lubna Ahamad al- Hussein, Quaranta frustate, Piemme bestseller, 2012, pp.172

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